Infoterapia. Ho sposato un siriano. Un’altra Siria è possibile.

Nelle parole di questa donna italiana, nel suo racconto vivo e disincantato, troveremo una Siria molto diversa da quella descritta nei comunicati stampa e nella stampa occidentale. L’intervista si inscrive nell’ambito di una ricerca in collaborazione con il Centro di Ricerca e Documentazione sulla Cultura Montanara, che si trova a Monghidoro in Via degli Olivetani 7. Gli incontri preliminari si sono svolti alla Piccola Scuola di Musica.

Ho sposato un siriano

  • “Questo è mio marito, ci siamo conosciuti a Bologna all’Università, lui studiava qua Farmacia; a quell’epoca c’erano parecchi studenti, molti siriani che erano venuti in Italia, alcuni a Bologna, altri in altre città. Poi quando ha finito lo studio siamo andati in Siria. Diciamo che come famiglia mio babbo non era molto contento, anche perché la lontananza era grande, a quell’epoca non c’erano le facilità di comunicazione che c’è adesso, la conoscenza un po’ più diretta per cui non si conosceva niente di questi paesi che sembravano anche più lontani di quel che non fossero. Invece arrivata là ti dico la verità mi son trovata bene, con le difficoltà della lingua che io non capivo l’arabo. Allora ci capivamo un po’ con l’inglese, anche perché là tutti già in quell’epoca (ti parlo del ’69) sapevano l’inglese e il francese. Quindi ci capivamo così, poi un po’ alla volta ho imparato l’arabo. Ha una difficoltà, che il parlato non è come quello classico che viene adoperato a scuola, naturalmente ogni luogo che vai ha una cadenza diversa perché sarebbe un po’ come il dialetto nostro. Ho trovato difficoltà in questo. Però mi sono abituata e ci siam capiti, si. Non ho visto questa diversità, penso che la conoscenza è la cosa migliore, perché se uno non conosce non può giudicare. Adesso ti racconto, mio babbo, mia mamma e mia sorella sono venuti nel ’75 da Monghidoro in Siria. Molti dicevan loro: “State attenti, non vi fermate per la strada perché ci sono i predoni”. Non lo so c’era una conoscenza proprio irreale. Quella volta quando sono arrivati di notte vicino Ara hanno trovato due che facevano picn-nic, hanno fatto solo vedere il nome del paese dove dovevano andare. Non potevano spiegare quelli, hanno messo tutto e han detto: “Seguiteci”. Non era una distanza di un chilometro, ma dieci. L’hanno portati fino alla porta dove loro vogliono. Era tutto di notte. Non è come dicono: “Non fermatevi per strada, non so qua in Europa come fosse veramente. Fino adesso zio dice: hanno messo via tutto, han detto seguiteci. E loro non avevano altra scelta, seguire o non seguire? Sono arrivati alle tre del mattino a casa da mio zio, hanno bussato e detto: “Abu Tammam?” Ora ti spiego però là c’è l’usanza di chiamare la persona con ‘Abu Tammam’, perché il figlio grande è ‘Tammam’, ‘Abu’ il padre, quindi Il padre di Tammam. Loro avevano la carta e chiedevano il nome di mio marito che è Taisir Tillo, nessuno lo conosceva. Questi ragazzi han detto: “Ma chi è Tillo? Dove si va?”. Siccome lui è il farmacista, han detto:  “Dal dottore, il dottore lo conoscerà!” e sono andati appunto dallo zio di Racha, spiegando: “Vogliamo questa persona”, Ha detto “Abu Tammam!”. Lo conoscevano con quel nome là. Ecco, io sono Em Tammam, La mamma di Tammam. Nel mondo arabo non si usa chiamare il nome proprio per rispetto della persona, chiamano il papà del figlio più grande. Se tu sei il più grande sai che tu chiami il nome del papà. Per questo l’usanza di chiamare i nomi è  in famiglia. Anche se tu hai qualche nome che ti viene in mente, per esempio Ben Bella è “figlio di”. E poi dopo mi son trovata bene anche perché là la gente è molto cordiale, aperta. Accetta. Accettava, più di quello che accetti adesso, perché le cose sono un po’ cambiate per motivi politici generali. Là come si svolge la vita, c’è molti scambi di visita tra le famiglie, tra gli amici si passava la giornata anche le donne di casa perché all’inizio ero una casalinga. Avevo quattro figli, che Dio li conservi. Allora non è che avessi molto tempo, però come tutte le altre donne si faceva quyìel che c’è da fare e dopo quando c’è tempo libero anche poco s’invita le vicine o i parenti chi ha la famiglia lì, si sta insieme. C’è molto questo scambio di visita. Come si svolge la visita, quando uno arriva questo è un classico quando entri mettono i semini, zucca, pistacchio, arachidi. Questi si chiamano Biser, e si comincia così sgranocchiando queste cose. Poi dovo arriva il tè, o nella nostra zona il Mete. Lo conosci? Arriva dall’Argentina. Poi dopo un bel vassoio di frutta, il caffè e il dolce. Per esempio se vado a trovarti solo così per chiacchiere allora niente, però per esempio se io so che a te piace la marmellata, loro fanno un po’ tra vicini, amici. Adesso ti dico, gli italiani allora erano 500 e più comprese le suore, cioè quelle stabili come noi sposate, e quelle per motivo di lavoro vanno e vengono. Quindi c’era una comunità molto forte. Si era abbastanza uniti…

Bibliografia:

F. Pichon, Siria. Perché l’Occidente sbaglia?
N. Chomsky, Terrorismo occidentale
P. Sensini, Siria
I. Alsabagh, Un istante prima dell’alba
Cartalucci-Bowie, Obiettivo Siria
T.B. Jelloun, Il terrorismo spiegato ai nostri figli
C. Fazio, Terrorismo mediatico

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