Federico Berti, Cenere. Racconto breve
Lo stesso giorno in cui l’aura cupa della vedovanza mi avviluppava nella sua nebbia, velandomi il volto in uno sguardo vacuo e cinereo, il padrone di casa mi fermò per le scale:
«Le chiavi» disse, «Può lasciarle nell’ombrelliera, prima di andar via».
L’appartamento era semivuoto. Da giorni mi dividevo tra il capezzale di lei e quel trasloco ormai non più rimandabile: non avrei potuto permettermi, da solo, un posto del genere. Erano rimaste quattro scatole, i tappeti arrotolati nell’angolo e una vecchia abat-jour che proiettava ombre lunghe sul muro. L’aria sapeva di legno, polvere, ragnatele. Avevo promesso al ragionier Arcangeli, anziano e rimasto anche lui solo al mondo, di attivarmi per trovare qualcuno che prendesse il mio posto, così nei giorni precedenti avevo appeso qualche annuncio, per mostrarlo io stesso a chi fosse interessato.
Qualche giorno dopo si presentò quella donna, puntuale, all’appuntamento, entrando dietro di me. Non l’avevo mai vista prima. Notai subito che aveva il mio stesso velo sugli occhi, liquide pupille incavate; la condussi per le stanze vuote in cui risuonava il nostro passaggio, mostrai ogni dettaglio, le parlai del silenzio nel servitissimo quartiere. Non parlò di sé, donde venisse, se intendesse abitarvi sola, quale fosse la sua occupazione.
Annuì, senza convinzione, quindi fece un altro passo o due, si chinò. Srotolò uno dei tappeti fino a metà, di traverso nella stanza, lasciando la parte arrotolata in prossimità della lampada accesa. Piangendo si tolse le scarpe, poi mi venne incontro con la disperazione negli occhi.
Non fu che una passione terribile, cieca, disperata. Inevitabile. Gli sguardi feriti di entrambi si chiamarono, ci amammo su quel tappeto, poggiando la testa sulla parte arrotolata. Mi sporcai la camicia, perché lei non sporcasse il suo vestito. Durò poco (forse molto non so, non misurammo il tempo). Quando la marea di quel furore inatteso tornò a ritirarsi, fu lei la prima ad avvedersi della sua nudità interiore: si rialzò, sistemò il vestito con cura e senza fretta, con una punta di velato imbarazzo.
Poggiò la schiena al muro, incrociò le braccia e guardò l’angolo opposto della stanza in penombra. Mi ricomposi alla meglio e, singhiozzando in un pianto viscerale, sedetti su uno degli scatoloni, quello che per errore avevo disposto capovolto. Piangemmo, senza chiederci l’un l’altro il motivo di tanto dolore. A che sarebbe servito parlarne? Lei Tornò a infilare le scarpe, raccolse la borsa, aprì la porta, poi sparì nell’androne delle scale. Restai seduto ancora qualche minuto con le tempie nel palmo delle mani, ascoltando i tacchi di lei che risuonavano nel vuoto delle scale, mentre lacrime calde, salate, continuavano a grondarmi sul volto.