Come il Sionismo ha tradito sé stesso

Degania Alef, il primo kibbutz (1910). Public Domain License.

L’analisi del fenomeno sionista richiede un approccio metodologico rigoroso che sappia distinguere tra le formulazioni teoriche originarie e le loro effettive realizzazioni storiche. La complessità di questo movimento politico e culturale non può essere ridotta a interpretazioni monolitiche, ma deve essere esaminata attraverso le sue molteplici correnti ideologiche e le loro trasformazioni nel corso del tempo. La polarizzazione che caratterizza il dibattito contemporaneo costituisce un ostacolo significativo per una valutazione critica equilibrata, rendendo necessario un approccio storicista che riconosca la pluralità delle tradizioni sioniste e le dinamiche che ne hanno determinato l’evoluzione.

La genealogia intellettuale del sionismo moderno trova le proprie origini non nelle iniziative diplomatiche e nelle speculazioni finanziarie di fine Ottocento, ma nell’opera teorica di Moses Hess, socialista tedesco e stretto collaboratore di Marx ed Engels. La pubblicazione di “Roma e Gerusalemme” nel 1862 rappresenta un momento fondativo spesso obliterato dalla narrazione dominante che identifica Theodor Herzl come il padre del movimento sionista.

L’approccio di Hess si caratterizzava per una dimensione profondamente internazionalista e socialista. Il filosofo tedesco concepiva il progetto del ritorno ebraico in Palestina non come un’impresa nazionalista isolata, ma come componente integrante di un più ampio movimento di emancipazione dei popoli oppressi dall’Europa ottocentesca. La sua formazione intellettuale, radicata nel socialismo tedesco e nel pensiero hegeliano, lo portava a interpretare la questione ebraica attraverso le categorie della storia universale, immaginando la costruzione di una società egualitaria e cooperativa che potesse fungere da modello per l’intera umanità.

Le prime migrazioni in Palestina ispirate da questi ideali puntavano alla realizzazione di piccole comunità utopiche interconnesse, fondate sulla prospettiva dell’unità proletaria nella lotta di classe. Questa visione originaria prevedeva la fratellanza tra lavoratori arabi ed europei, uniti contro il comune nemico rappresentato dal sistema capitalista. La successiva cancellazione di questa tradizione dalla memoria storica riflette la più ampia rimozione delle componenti socialiste e internazionaliste dalla narrazione ufficiale del sionismo.

Il sionismo socialista trovò la sua espressione teorica più compiuta nell’opera di Ber Borochov, che sviluppò una teoria originale del “proletariato ebraico”. Borochov interpretava l’insediamento in Palestina non come impresa imperialista, ma come necessità storica per la formazione di una base produttiva che permettesse agli ebrei di superare la condizione di “popolo nell’aria” e di partecipare pienamente alla lotta di classe internazionale.

L’esperienza concreta dei kibbutz rappresentò la manifestazione più significativa del passaggio dalla teoria alla prassi rivoluzionaria. Queste comunità nascevano dall’incontro tra l’aspirazione sionista e i principi del socialismo utopico, proponendo un modello organizzativo basato sulla proprietà collettiva, l’uguaglianza economica e sociale, e la partecipazione democratica alle decisioni. I kibbutz costituivano un tentativo concreto di realizzare una società alternativa al capitalismo e al nazionalismo tradizionale, incarnando una visione che vedeva nella Palestina il laboratorio di un esperimento sociale di portata universale piuttosto che la sede di uno Stato ebraico esclusivo.

Parallelamente alla corrente socialista si svilupparono verso la fine dell’Ottocento diverse posizioni interne al sionismo, ma estranee al marxismo e all’internazionalismo marxista, che avrebbero successivamente acquisito maggiore influenza. Il sionismo politico di Herzl si concentrava sulla dimensione diplomatica e istituzionale, perseguendo il riconoscimento internazionale del diritto degli ebrei a costituire uno Stato sovrano. Questa corrente, pur mantenendo inizialmente un approccio relativamente pragmatico e laico, conteneva già gli elementi che avrebbero favorito la successiva prevalenza di una visione nazionalista, sviluppatasi però solo nei primi anni del Novecento attraverso il filtro del colonialismo anglo-americano.

Si sviluppò contemporaneamente un sionismo religioso che interpretava il ritorno in Terra Santa attraverso categorie teologiche, considerando la realizzazione dell’aspirazione sionista come adempimento delle profezie bibliche e momento di redenzione messianica. Questa prospettiva avrebbe successivamente fornito le basi ideologiche per posizioni sempre più esclusiviste e suprematiste, sebbene non sia tuttora condivisa da tutta la comunità ebraica internazionale, parte della quale non riconosce nemmeno la legittimità dello Stato di Israele proprio su basi dottrinali.

Il processo che ha condotto alla prevalenza della corrente nazionalista all’interno del movimento sionista rappresenta una delle trasformazioni più significative della storia politica del XX secolo. Diversi fattori hanno contribuito a questa evoluzione: l’intensificarsi dell’antisemitismo europeo culminato nella Shoah, le dinamiche geopolitiche internazionali caratterizzate dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano e dall’instaurazione del mandato britannico, e l’aggravarsi delle tensioni con la popolazione araba palestinese.

La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 ha segnato un momento di svolta decisivo. Come osservò Hannah Arendt, la modalità unilaterale e arbitraria con cui furono disegnati i confini statali da parte dell’ONU, senza un processo di negoziazione multilaterale, generò inevitabilmente una condizione di assedio permanente. La necessità di costruire e difendere un’entità statale in un contesto di conflitto continuo favorì la centralizzazione del potere e la marginalizzazione delle correnti pluraliste e internazionaliste.

Le istituzioni statali israeliane hanno progressivamente assorbito o neutralizzato le esperienze alternative, trasformando i kibbutz da comunità autonome in colonie abusive e appendici dell’apparato statale e militare. L’utopia socialista si è così trasformata nella sua antitesi distopica, incarnata oggi dalle politiche suprematiste e genocide dell’attuale leadership israeliana.

L’analisi del sionismo non può prescindere dall’esame del contesto geopolitico in cui si è sviluppato. La questione palestinese si inserisce nel quadro più ampio della crisi degli imperi multinazionali, dell’emergere del sistema degli Stati-nazione e delle dinamiche del colonialismo europeo in Medio Oriente. Il mandato britannico sulla Palestina ha creato le condizioni strutturali per lo sviluppo del conflitto, promuovendo simultaneamente aspirazioni nazionalistiche incompatibili con la realtà del territorio.

La Dichiarazione Balfour del 1917 e la risoluzione ONU del 1947 hanno contribuito al cristallizzarsi di queste contraddizioni, imponendo soluzioni esterne che non tenevano adeguatamente conto delle dinamiche locali e delle aspirazioni delle popolazioni coinvolte. Questi interventi esterni hanno rappresentato momenti di rottura che hanno condizionato irreversibilmente l’evoluzione successiva del conflitto.

La valutazione del sionismo solleva questioni metodologiche fondamentali per la ricerca storica. Il rapporto tra ideali originari e realizzazioni concrete costituisce un tema classico della storiografia delle idee politiche, che nel caso del sionismo assume particolare complessità per le profonde trasformazioni subite dal movimento. Un approccio rigoroso richiede di distinguere tra l’analisi delle formulazioni teoriche originarie e la valutazione delle loro realizzazioni storiche.

Giudicare il sionismo socialista di Hess o Borochov esclusivamente attraverso le attuali politiche israeliane nei territori occupati rappresenterebbe un errore metodologico analogo a quello di giudicare il socialismo di Marx attraverso l’esperienza staliniana. Le idee non sono mai responsabili delle loro manipolazioni, e la responsabilità ricade su coloro che se ne servono come paravento per azioni criminali.

La comprensione storica del sionismo richiede il superamento delle narrazioni monolitiche che caratterizzano il dibattito contemporaneo. Riconoscere la pluralità delle correnti sioniste, analizzare criticamente le loro trasformazioni storiche e valutare le responsabilità dei diversi attori rappresenta un prerequisito essenziale per qualsiasi approccio serio alla questione. La distinzione tra sionismo come movimento di idee plurali e le politiche concrete degli Stati e delle istituzioni che si sono richiamate ad esso costituisce un elemento cruciale di questa analisi.

L’analisi storica del sionismo illumina i processi attraverso cui ideali originariamente pluralisti, egualitari e progressisti possono essere distorti e trasformati da dinamiche di potere che ne alterano profondamente il significato. La vicenda sionista non rappresenta un caso isolato, ma si inserisce in una più ampia casistica di tradimenti ideologici che ha caratterizzato la storia del XX secolo.

Il vero antagonista da identificare e combattere non è costituito dai popoli in conflitto, ma dal nazionalismo che li pone gli uni contro gli altri. Il cancro del sovranismo suprematista rappresenta il male da estirpare attraverso il contributo comune di una sinistra israeliana e di una sinistra palestinese, che devono ritrovare forza, radicalizzarsi e prevalere sulle forze nazionaliste da entrambi i lati del muro, per poter abbattere finalmente quella barriera che tuttora costituisce una vergogna per l’umanità.

Solo attraverso il recupero degli ideali originari del sionismo socialista e la loro sintesi con le aspirazioni di liberazione del popolo palestinese sarà possibile costruire una prospettiva di pace duratura. La responsabilità degli intellettuali consiste nel mantenere viva la memoria di questa complessità storica, resistendo alle semplificazioni ideologiche e contribuendo alla costruzione di un futuro che sappia fare tesoro tanto degli ideali più nobili delle tradizioni in conflitto quanto della consapevolezza critica delle loro trasformazioni e dei loro tradimenti.


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