Le navi per l’Africa Orientale. Odissea in Etiopia, Cap.3.

Federico Berti,
Odissea in Etiopia

Cap. 3, Le navi per l’Africa Orientale

Le nuvole alte nel cielo quel giorno avevano assunto, per una curiosa fatalità, la forma delle navi per l’Africa Orientale radunate nel porto, pronte a salpare in attesa che il vento e la pioggia si placassero. Ermete le aveva lungamente osservate durante il concerto in casa Spinelli e si era chiesto di quale augurio fossero portatrici quelle ingannevoli visioni, emerse come spiriti del crepuscolo dalle nubi sature e mutevoli. Il maggiordomo distolse lo sguardo dalla finestra della sala, raggiunse con discrezione l’ingresso e aprì la porta principale della villa, richiamando con un cenno l’attenzione della piccola Sibilla, che s’infilo nell’uscio agile come una gatta. Con silenziosa complicità la condusse attraverso i corridoi bui, evitando di farla notare dagli altri ospiti che si trovavano nel salone principale, intrattenuti dal pianoforte sovrastante il brusio della pioggia che picchiettava sulle finestre.

La bambina tremava visibilmente, il volto pallido contratto dalla paura, gli occhi rossi e lucidi dal pianto. Avrebbe voluto parlare, ma non riusciva ad articolare il suono della voce per lo spavento. Ermete con un gesto premuroso le fece segno di tacere posando un dito sulle labbra, lucidamente conscio del pericolo che qualcuno potesse sentirli. Poi rassicurandola sempre con lo sguardo, dopo averla condotta in cucina la sollevò in piedi sopra una seggiola, dove la stufa a legna emanava un piacevole tepore. Con vigorosa delicatezza asciugò alla meglio i capelli della piccola Sibilla con un panno morbido, mentre lei continuava a tremare balbettando parole sconnesse. Quindi iniziò a liberarla dei suoi vestiti onde permetterle di asciugarli vicino al fuoco, e l’avvolse in una coperta di lana

Sibilla continuava a sussurrare concitatamente parole confuse, rendendo difficile per l’uomo cogliere delle informazioni coerenti. Man mano che il calore si faceva strada nel suo corpo, la bambina iniziò a distendersi e finalmente riuscì a farsi capire. “Devi… venire subito a casa!”, mormorò con voce flebile, gli occhi ancora lucidi di lacrime. “L’ho trovata distesa in terra, sembrava morta… Non si muoveva, come quella volta che è venuto il dottore e l’ha portata via.”

Ermete si guardò intorno sospettoso, comprese la gravità della situazione e spalancò gli occhi trattenendo il respiro. Non c’era tempo da perdere. Senza dire una parola si affrettò a rivestire la bambina, afferrò il proprio soprabito e il cappello a tese larghe, uscì sulla strada principale con Sibilla avvolta nella coperta stretta contro il suo petto. Chiuse con cura la porta dietro di sé, senza far rumore, e poi iniziò una corsa a perdifiato attraverso le strade allagate e fangose. La pioggia scrosciante, illuminata solo dai bagliori dei lampi nel cielo scuro, si accendeva di tanto in tanto d’una luce spettrale mentre Ermete si dirigeva verso la casa del dottor Magnani. All’orizzonte, le navi alte nel cielo che aveva visto dalla finestra del conte Spinelli, parevano osservare ancora impassibili la scena. Le strade erano un fiume torrenziale di melma e acqua, il maggiordomo era costretto a saltare dall’orlo di una buca a un rivolo di fango, per evitare di inzupparsi completamente. Giunto che fu sotto la finestra del medico, lancio alcuni sassi per attirare la sua attenzione. L’amico avrebbe capito, altre volte aveva prestato servizio per le famiglie dei reduci meno abbienti.

Dalla finestra si affacciò il dottore, in vestaglia: “Piano con quei sassi, non potevi salire e bussare alla porta, come tutti?”, protestò. Ma dall’espressione dell’amico si rese conto che non c’era tempo da perdere, doveva essere una situazione veramente disperata. Chiuse la finestra e corse giù per le scale, seguendo l’altro che si stava già avviando per fargli strada. Il fiato dei due uomini si mescolava con la pioggia, condensandosi in piccole nuvole bianche intorno alle gocce d’acqua che scivolavano lungo i loro volti. Il vortice del respiro le risucchiava in bocca, mentre il sudore freddo si mescolava all’acqua dolce della pioggia battente. Le scarpe dell’uno schizzavano fango sui pantaloni dell’altro, creando uno spessore denso e viscoso. Dovevano fare molta attenzione a non scivolare.

Davanti a loro si apri un viottolo alluvionato, una striscia d’acqua marrone che scorreva veloce verso una piccola borgata di baracche, aggrappate disperatamente al terreno bagnato. Con passi decisi, i due uomini vi si diressero con la forza della disperazione. Giunti alla misera dimora della bambina, si trovarono di fronte una casupola malandata, le pareti di legno logorate e il tetto piegato dal vento. Con gesti rapidi Ermete aprì la porta ed entrò, seguito dal dottor Magnani. La baracca era piccola e angusta, un solo ambiente fungeva da cucina e camera da letto. L’odore di umidità e muffa impregnava l’aria mescolandosi all’acre effluvio della pioggia. Insieme perlustrarono la stanza con lo sguardo, cercando il corpo della donna.

Lo videro ai piedi del letto, immobile e pallido come la luna che ogni tanto si affacciava tra le nubi cariche di violenza. Il medico si avvicinò con prontezza, intraprese le procedure di rianimazione mentre Ermete cercava di tranquillizzare la bambina, che osservava con occhi spalancati e pieni di terrore. In quel frattempo una sconosciuta si affacciò sulla porta con il volto sgomento e gli occhi pieni di preoccupazione. Il dottore la mandò a chiamare il prete, che venisse con un carretto per trasportare la paziente al più vicino ricovero. Nel frattempo la madre della piccola Sibilla sembrava lentamente rianimarsi, riprendendo a respirare e recuperando i sensi. Ermete la adagiò sul letto, mentre il vento continuava a urlare fuori e la pioggia picchiava con violenza sul tetto, spalancando prepotente le imposte senza vetri.

L’uomo si affrettava a richiudere i battenti con un ferro, per proteggere la stanza dalla furia della tempesta, un’improvviso bagliore all’orizzonte lampeggiò tra le nuvole mostrando ancora un volta ai suoi occhi il contorno di quelle navi che inamovibili nel cielo cangiante continuavano a scrutarlo come l’occhio di una potenza numinosa. Le navi per l’Africa Orientale, ad ogni fulmine sembrava di vederle ormeggiate in quell’orizzonte tramortito dal vento, pronte a salpare quando la furia si fosse placata. Quell’immagine insistente gli si impresse vivida nell’animo, come la visione di un augure che scruta nell’aria per trarne vaticini. Non sapeva ancora come interpretarla, quale inquietudine interiore avesse mosso in lui il pensiero delle navi pronte a salpare. Sospese il giudizio e le accolse in attesa di poter dare un nome all’ansia che da qualche giorno lo percorreva. Mentre il medico fasciava stretti i polsi della donna, Ermete si assicuro che la bambina non posasse ancora lo sguardo su di lei. La condusse al suo letto, la svesti e le rimbocco le coperte. “Sono qui vicino a te, sulla poltrona. Non temere”.

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