Cantastorie in Italia. Quanti ne sono rimasti?

Il Cantastorie Piazza Marino e suo figlio Giuliano

Rispondo a una domanda che mi viene rivolta spesso: “In quanti siete rimasti a fare questo lavoro?”. La risposta è tratta da un saggio breve contenuto nel booklet interno al Cd/Book pubblicato da Valter Colle nel 2011, nel quale riprendevo un precedente studio sempre da me realizzato per conto di Terzostudio, agenzia di spettacolo leader nel mondo dell’arte di strada. Potremmo riassumere quanto segue con una risposta semplice e diretta: “Nessuno”, la risposta che diedi allora.


Cantastorie e artisti di strada

Il problema dell’eredità culturale

Tratto da: F. Berti, L’asino, il leone, la colomba
Booklet interno al Cd. Udine, Nota, 2011

In queste pagine si vuole riassumere un lavoro di ricerca svolto per conto dell’Associazione Terzostudio di Ponte a Egola (Pisa) il cui obiettivo iniziale era la compilazione di una banca dati con nomi e recapiti dei cantastorie oggi operanti in Italia; non è stato mai possibile portarlo a termine perché sotto la categoria dei ‘cantastorie’ si andavano raggruppando realtà fra loro diversissime come musicisti pop, religiosi e missionari, giornalisti, artisti di strada, animatori di villaggi turistici, scrittori di libri per bambini, realtà che non si riusciva a capire esattamente da cosa fossero accomunate; per fortuna esiste un’associazione di categoria fondata nel 1954 proprio da quei cantastorie tradizionali che hanno operato durante il ventennio fascista e sono stati costretti a interrompere l’attività nel dopoguerra. Dato che l’Associazione Italiana Cantastorie (A.I.Ca.) patrocina una rivista periodica molto nota nel settore, se ne sono consultati tutti i numeri a partire dal 1973 al 2000 per capire quali fossero i tratti distintivi, la formazione, il repertorio, così da poter mettere a punto qualche criterio di selezione ragionato e compilare un elenco su presupposti documentabili. Riassumerò brevemente il contenuto delle interviste, le cui fonti sono riportate nell’opuscolo “Cus i’strolghen pr’an fèr gninta!” prodotto da Terzostudio, di cui questo breve articolo è un estratto.

Un canzonettista, questo il nome che i cantori ambulanti davano a sé stessi fino al 1954, non si considera un artista (gli artisti sono quelli del teatro, della radio, della televisione) e non ha bisogno di particolari espedienti per attirare l’attenzione del pubblico ma adotta dei segni convenzionali per far capire che in un certo luogo sta per accadere qualcosa; non pretende il silenzio, non fa nulla cui si debba assistere passivamente, si riconosce come uomo fra gli uomini che vive un rituale di aggregazione spontanea all’interno del quale svolge un ruolo limitato di cui è perfettamente consapevole. Raramente quello del canzonettista è il primo lavoro, di solito vengono svolte in parallelo altre professioni per vivere, magari lavori a domicilio o che comportano forme di migrazione stagionale; l’arte si può tramandare di padre in figlio o si può apprendere a servizio di qualche professionista. Una certa disponibilità a viaggiare è richiesta nei primi anni, più che altro in occasione di sagre o fiere particolarmente importanti; il resto dell’anno si battono mercati e piazze vicino al proprio luogo di residenza, dove s’è conosciuti. I testi sono realizzati a partire da composizioni già note o eventualmente combinando tra loro moduli ricorrenti, spesso riscrivendolo sulle melodie dell’opera o i grandi successi della radio; gli argomenti consistono in fatti di cronaca, episodi di guerra, storie ‘antiche’, ritornelli a doppio senso, serenate amorose; le canzonette vengono stampate su fogli illustrati che il pubblico acquista per poterle memorizzare più facilmente e cantarle a sua volta insieme ad altri. I canzonettisti ambulanti sono volentieri accolti nelle case della gente che in cambio d’allegria li ospita volentieri a dormire e mangiare, a patto che sappiano dimostrare di essere persone pulite, educate, non invadenti; a volte parlano anche di politica ma lo fanno senza mai scendere in polemica diretta e senza cercare dei ‘seguaci’ ma svolgendo sempre un servizio per conto di qualcuno.

Questa l’immagine che ne emerge dalle interviste pubblicate nel semestrale ‘Il cantastorie‘, rivista di tradizioni popolari curata da Giorgio Vezzani di Reggio Emilia; lo sventurato che ne volesse compilare un elenco resterebbe però deluso, perché il mestiere è descritto come un’attività non più in uso. Le ragioni dell’abbandono sono almeno tre, riferite dagli stessi canzonettisti ambulanti nelle loro interviste: in primo luogo le restrizioni sempre più rigorose nell’uso degli spazi pubblici dopo la seconda guerra mondiale, in secondo luogo la tassazione dei prodotti venduti in piazza (cravatte, lamette da barba, lunari ecc.); infine il disinteresse da parte dei giovani verso chiunque abbia più di trent’anni e il conseguente abbandono delle pratiche di canto e ballo spontaneo.


Tratto da: F. Berti, L’asino, il leone, la colomba
Booklet interno al Cd. Udine, Nota, 2011


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